MOSTRE


Nella Napoli di Michele Comella,
 istantanee di miserie e nobiltà
di
 Giovanni Ruggiero



La fotografia arriva presto a Napoli, e i napoletani sono affascinati. Come in altre grandi città europee, subito si diffonde e diventa popolare. È portata dagli ultimi viaggiatori del Grand Tour di cui Napoli è stata sempre una delle tappe principali. Nel 1846 Calvert Richard Jones, dall’Hotel Des Etrangers di Santa Lucia scatta fotografie con la tecnica del calotipo inventata dal cugino Fox Talbot. Nel 1864 parte la prima campagna dei Fratelli Alinari a Napoli, con il compito di fotografare le opere del Museo Archeologico Nazionale. Nel 1871 in città operano 33 studi fotografici, che diventano 40 nel 1874, e quasi cento negli anni ’80 dell’Ottocento con un totale di 189 dipendenti. Si chiamano Ferretti, Arena, Grillet, Sommer, Gairoard, Mauri, il “fotografo dei re”, che assicurano perizia e professionalità. A questi vanno aggiunti i dilettanti che non operano a scopo di lucro, e tra loro va annoverato senza dubbio Michele Comella.
 Il nome di questo artista, che ha fatto parte dell’ultima Scuola di Posillipo, è poco noto, nonostante in vita sia stato apprezzato come pittore. Tanto che Enrico Giannelli, anch’egli artista che con Giacinto Gigante si prefisse di promuovere un rinnovamento della pittura paesaggistica napoletana, lo annovera tra altri 243 pittori nel suo importante dizionario Artisti napoletani viventi , ancora fondamentale per conoscere quel vivace periodo artistico napoletano. Michele Comella nacque nel 1856 a Casaluce, nell’Agro aversano, da famiglia agiata. Si diplomò all’Istituto delle Belle Arti di Napoli e presto fu accolto come pittore in importanti esposizioni: a Genova nel 1889, a Palermo nel 1891 e soprattutto in quelle della Società Promotrice Salvatore Rosa di Napoli, una specie di Salon partenopeo dove esponevano periodicamente artisti consacrati della Scuola di Posillipo e i Macchiaioli. Comella morì nel 1926 nel paese natio che gli aveva ispirato i suoi paesaggi campestri.

 Comanducci nel famoso Dizionario illustrato dei pittori, disegnatori e incisori moderni e contemporanei gli dedica nel tempo quattro schede, accreditandolo anche come fotografo. È un pittore che, come altri artisti della sua epoca, utilizzò la fotografia per fini pittorici. Lo fa Edgar Degas in Francia, lo fa Francesco Paolo Michetti in Italia. L’intento pittorico è evidente nelle foto di Comella, che pubblichiamo per la prima volta a distanza di oltre cento anni dalla loro realizzazione. Per queste foto, eseguite a cavallo tra Ottocento e Novecento, Comella (anche per l’agiatezza economica) non prendeva alcun compenso; in questo senso è un dilettante. All’epoca si pose subito la distinzione tra professionisti e dilettanti, e la bilancia, contrariamente a quanto si possa immaginare, pendeva a favore di questi ultimi in termini di qualità.

Scriveva Luigi Gioppi nel Bullettino della Società fotografica italiana del 1894: «Il professionista non ha né voglia né tempo né mezzi per studiare e limita il suo lavoro o al mero commercio quattrinaio o all’imitazione dei concorrenti più in auge o al gusto spesso discutibile del pubblico. Il dilettante, invece, è libero del suo tempo, è fornito di un corredo di studi superiori e, il denaro non facendogli difetto, ha il mezzo di scegliere, come l’ape sui fiori, il meglio di ciò che vede».

Nel ritratto che Gioppi fa di questo dilettante colto, facoltoso, evoluto e appassionato pare di vedervi Comella.


Si può dire delle sue foto quanto Beaumont Newhall scrive dei dilettanti proposti nel 1893 alla Kunsthalle di Amburgo (evento che fece scalpore) da Alfred Lichtwark: «Non vi figuravano i pomposi ritratti fatti in studio da professionisti, con i loro fondi dipinti, le colonne false, i mobili di imitazione». Michele Comella, infatti, non utilizza un set per mostrare la condizione sociale vera o presunta della persona ritratta. Si concentra soltanto sul soggetto che guarda quasi sempre in macchina per fermare sulla lastra la somiglianza intima, come l’intese Nadar, pur non avendo, a differenza del celebre francese, tra il suo pubblico scrittori o poeti, scultori o musicisti e donne celebri. Davanti all’obiettivo mette in posa la media e l’alta borghesia rurale, ma anche contadini, i poveri del paesino dove vive, domestici che probabilmente sono a servizio in casa Comella. Li fotografa tutti donando a ciascuno un’identica dignità. I suoi poveri non sono letti in chiave antropologica né con commiserazione. Pare di leggere nei loro volti il profondo rispetto provato dal fotografo Comella che li ha voluti ritrarre. I soggetti, per primi, avvertono questa premura. Per nulla spaventati, guardano fisso nell’obiettivo quasi a sfidare il fotografo e poi l’osservatore. Sono tutti fieri e orgogliosi nei loro panni umili e dignitosi.




Atutti questi volti si può adattare quanto Alfred Döblin scriveva in un breve ma acuto saggio per la prima edizione dell’opera di August Sander pubblicata nel 1929.

L’autore di Berlin Alexanderplatz scorgeva nelle foto di Sander un doppio livellamento: quello «che accomuna i volti umani nella morte» – e questo vale per tutti noi che guardiamo le foto di chi non è più –, e il «livellamento esercitato dalla società e dalla classe a cui gli individui appartengono». Nessuno, però, ostenta quello che è. C’è piuttosto consapevolezza del proprio status: i ricchi non si compiacciono e i poveri non vogliono impietosire. Le sue inquadrature sono composte. Il tempo di posa lungo (più di un trentesimo di secondo) non gli consente di eseguire istantanee. Michele Comella realizza “false istantanee”: costruisce la foto pensando già come sarà la scena riportata sulla tela. «Ferma così!», pare sentire che dica alla donna ripresa nell’atto di sfilarsi il corsetto, perché per sicurezza, subito dopo, effettua un secondo scatto. Ed ha una evidente finalità pittorica la foto di una donna orante, ripresa nel corridoio di casa mentre due ragazzini guardano incuriositi sporgendosi da una porta.

Forse la foto, eseguita senza curarsi di allestimento scenico, deve servire per una Maddalena ai piedi della croce. 



A suo modo risolve in privato quella questione ancora aperta, posta da Baudelaire, se il fotografo dovesse considerarsi un artista (il poeta fece un intervento per escluderlo): Michele Comella spesso firma direttamente la lastra al bromuro d’argento come un pittore firma una tela, affermando in questo modo la consapevolezza di essere un artista. Un artista che meriterebbe un giusto riconoscimento postumo, a 87 anni dalla sua morte. 


Giovanni Ruggiero
Avvenire 3 novembre 2013 ©


La Tammorra

    
Domenica 30 giugno 2013 ho partecipato alla Festa della Tammora di Somma Vesuviana. E' stato bello vedere giovanissimi cantare "Bella figliola ca' te chiamme Rose" ed altre canzoni della tradizione popolare. Non credo che le conoscano per averle sentite dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, credo piuttosto che le appiano apprese dalle loro mamme e dalle loro nonne che gliele cantavano come fossero ninna nanne. Vuol dire che nonostante le play station, gli iPhone e altre modernità, la tradizione non è morta ancora. A Somma Vesuviana la tammorra si sente nell'aria. qui ho avuto modo di scoprire due straordinari interpreti della musica popolare: Pino Iove e Simone Carotenuto. Non personalmente, ma attraverso i loro dischi che ho comprato su una bancarella alla Festa. Mi è piaciuto montare alcune mie fotografie con la musica di Pino Iove che mi ha gentilmente concesso questa possibilità. Ringrazio questo musicista appassionato del canto della sua terra e ringrazio i giovani che lo accompagnano: Antonio Iovino (alla fisarmonica), Luca Iovino e Antonio Iovino (alle tammorre), Raffaele De Luca Picione (all'organetto) e Felice Cutolo (alla chitarra classica e battente). Il brano che sentirete in questo video si chiama "Spaccapaese" ed è tratto dall'album "Avota vò"Un grazie anche alla cordialità dei Sommesi.




Treno Intercity 25453 ©
(Ci scusiamo per il disagio)


Sto dando corpo al progetto “Treno Intercity 25453” al quale lavoro da diverso tempo. Da anni mi sposto (ahimè!) tra Napoli e Roma con gli intercity di Trenitalia. Ho cominciato a fotografare la persona che sedeva sulla poltrona di fronte a me, chiunque fosse, utilizzando il mio telefono cellulare. Perché questo mezzo così riduttivo? Viviamo in fotografia un profondo paradosso: più questo mezzo è diventato popolare (grazie proprio ai telefonini) più si è banalizzato. La banalizzazione dell’immagine, in verità, è cominciata con l’era digitale. Le macchine sempre più semplici e sempre meno costose consentono a tanta gente di fotografare pur ignorando le regole più elementari della fotografia. La differenza, dall’analogico al digitale, forse è nella perdita della magia che era data dall’attesa. Scattare, terminare il rollino, portarlo a sviluppare e attendere, sperando in un buon risultato… Oggi è tutto immediato, e la foto in rari casi verrà stampata. Finisce nella memoria di un telefonino o di un computer e vi resta finché l’evanescente file non sarà distrutto per qualche motivo, ivi compresa la necessità di fare spazio nella memoria per accogliere nuove foto. La foto, poi, ha perso anche gli “altari espositivi” dove era esposta con cura ottenendo anche una sorta di venerazione: un album, una cornice d’argento posta su un ripiano del salotto, un poster a capo del letto. Il digitale, che tuttavia è il futuro, ci ha privato di questi riti, sostituendone altri: inquadrare con il telefonino, scattare, mandare in rete…

La modestia tecnologica del cellulare in campo fotografico può consentire di elevare il suo prodotto a una dimensione o pretesa artistica? Con “Treno Intecity 25453” voglio provare a rispondere a questa domanda.
La “grammatica narrativa” di questa nuova serie è quella mia, già sperimentata con “Memento” e con i San Sebastiano. Le tessere che riprendono il viaggiatore che mi è di fronte possono essere scambiate, perché qualcosa del genere avviene viaggiando in treno: capita che a una stazione scenda un viaggiatore e ne salga un altro proprio davanti a te. E lo scompartimento cambia: altre gente, altre vite, altre storie che noi non sapremo mai. Perché andiamo di fretta. Rinunciamo anche a conoscerci.






Sebastiano, la freccia e la palma







***

Firenze
IL MARMO NUDO




cliccare la pagina Fotografie






Universiteti POLIS
Tiranë




Photography, re-collection & memory

Tirana, 19-25 ottobre 2012


Ho tenuto a Tirana un workshop all’Università Polis nel quadro del TAW (Tirana Architecture Weeks) su invito del rettore, Bensnik Aliaj. Hanno partecipato al workshop, incentrato sulla fotografia, gli studenti del primo anno del corso di Design.
È stata un’esperienza bella e appassionante che ha coinvolto gli studenti che si sono sentiti attori e protagonisti del progetto.
Il workshop era articolato in diversi momenti. La mattina era riservata a lezioni di storia della fotografia e del fotogiornalismo, il pomeriggio era dedicato al laboratorio per realizzare un’opera collettiva che è rimasta all’Università.
Il workshop era incentrato sulla memoria e il ricordo della fuga degli albanesi verso l’Italia. In particolare lo sbarco della nave “Vlora” nel porto di Bari nell’agosto del 1991. Le foto che ho realizzato in quella occasione sono state esposte in una mostra che abbiamo chiamato “Sull’onda dell’avventura”.
Le foto della mostra sono state accompagnate da versi del poeta Visar Zhiti che nella sua opera ha toccato questo dramma che ha segnato i primi anni della giovane democrazia albanese.
Un particolare di una foto, il volto di un giovane albanese disperato, è stato utilizzato per realizzare l’opera “La fuga di Ilir”. Abbiamo immaginato che questo giovane possa chiamarsi Ilir che è un nome molto diffuso in Albania. Il suo volto sbuca da una bandiera albanese lacerata. Abbiamo voluto indicare in questo l’espulsione quasi violenta della madre Albania che ha partorito questi ultimi suoi figli affidandoli al mondo.
L’opera è stata eseguita con la collaborazione di tutti gli studenti che l’hanno firmata sul retro.
Nel corso del workshop è stato proiettato il film di Gianni Amelio “Lamerica” che racconta le fughe verso l’Italia. Abbiano avuto l’onore di avere tra noi il regista albanese Piro Milkani che fu aiuto regista del film di Amelio.

Sento di dover ringraziare:

il rettore
Besnik Aliaj 
per la possibilità che mi  ha dato

il professore
 Antonino Di Raimo
 per l’accoglienza e per i suggerimenti nell’ideazione del progetto

Sonia Jojic e Anduena Dragovi 
per l’assistenza e la preziosa collaborazione

tutti i giovani studenti
che hanno partecipato a questo incontro
 che è stato scambio di esperienze e di emozioni





PHOTOGRAPHY, RE-COLLECTION&MEMORY

19-25 TETOR 2012-11-27

Mbi valet e aventures – Ikja e Ilirit

Kam mbajtur ne Tirane nje workshop ne Universitetin Polis ne kuader  te Javes se Arkitekture ne Tirane me ftese te rektorit, Z.Besnik Aliaj. Ne kete workshop qe i perkushtohej fotografise moren pjese studentet e vitit te pare te Kursit te Design- it.
Ishte nje pervoje e bukur dhe mbreselenese e cila perfshiu studentet te cilet u ndjene aktore dhe protagoniste te projektit.
Workshop-i ishte i ndare ne disa momente. Mengjesi i ishte kushtuar leksioneve te historise se fotografise dhe fotogazetarise, pasditja i ishte kushtuar laboratorit per realizimin e nje vepre te perbashket qe i mbeti Universitetit.
Workshop-i ishte i perqendruar ne kujtimin dhe kujtimet e ikjes se shqipetareve drejt Italise. Ne veçanti ne mberritjen e anijes Vlora ne portin e Barit ne gusht te vitit 1991. Fotografite qe bera ne ate rast jane ekspozuar ne nje ekspozite qe e kemi quajtur “Mbi valet e aventures”.
Fotografite e kesaj ekspozite u shoqeruan nga vargje te poetit Visar Zhiti qe ne vepren e tij ka prekur kete drame qe ka lene shenje ne vitet e para te demokracise se re shqiptare.
Ja nje poezi e tij dedikuar ekspozites:

Ne detin e Homerit

Shkoj shpesh
Buze detit
Dhe hedh kepucet ne uje.

Nuk di si ndodh.
Po ja qe kepucet e mia
Zmadhohen e zmadhohen
E behen anije
Per te kthyer Uliksat
                 Neper shtepira.

I zbathur u dal perpara
Qe te perqafohemi





Nje detaj i nje fotografie, fytyra e deshperuar e nje te riu shqiptar, eshte perdorur per realizimin e vepres “Ikja e Ilirit”. Menduam se ky i ri mund te quhej Ilir qe eshte nje emer i perhapur ne Shqiperi. Fytyra e tij shfaqet nga nje flamur shqiptar i copetuar. Deshem te tregonim me kete debimin gati te dhunshem te Nenes Shqiperi qe i lindi keta bij per t’ia besuar botes.
Vepra u krijua me bashkepunimin e te gjithe studenteve qe edhe e kane nenshkruar.
Gjate workshop-it u projektua filmi i Gianni Amelio-s “Lamerica” qe tregon ikjet drejt Italise. Patem nderin te kemi mes nesh regjizorin shqiptar Pirro Milkani I cili ishte ndihmes regjizor ne filmin e Amelio-s.
Studentet qe moren pjese ne workshop dhe u angazhuan me entuziazem ne realizimin e vepres jane.

Me duhet te falenderoj:

Rektorin Besnik Aliaj 
per mundesine qe me dha;

Prof. Antonino Di Raimo
 per pritjen dhe sygjerimet per ideimin e projektit;

Sonia Jojic dhe Anduena Dragovi
per ndihmen dhe bashkepunimin e shkelqyer;

te gjithe studentet
 e rinj qe moren pjese ne kete takim i cili ishte nje shkembim pervojash dhe emocionesh.




L'album del workshop









Ma ci siamo anche divertiti...






Prepariamo la mostra "Sulle onde dell'avventura"





L'inaugurazione


Il poeta Visar Zhiti autografa una sua poesia

Il rettore dell'Università POLIS,  Besnik Aliaj 


 Ragazzi, ancora grazie per questi fiori

 "La fuga di Ilir" realizzata con gli studenti




DIGITA

SULLE ONDE DELL'AVVENTURA
Bari, agosto 1991
lo sbarco della nave Vlora


 Tutte le foto esposte all'Universiteti POLIS di Tirana























Queste foto che seguono sono in sequenza. Il ragazzino sbarcato con la Vlora riconosce sulla banchina del porto di Bari il fratello maggiore venuto in Italia con lo sbarco precedente (febbraio dello stesso anno a Brindisi). Si abbracciano ma i carabinieri li dividono. Il più piccolo deve essere rimpatriato. Lo Stato italiano (ministro degli interni Scotti, capo della polizia Parisi)  non fu capace di esprimere un briciolo di umanità. Forti le critiche da parte della Caritas e di molti vescovi italiani.






Questo ragazzino lo abbiamo chiamato Ilir




****


E' già in libreria




Il Melodramma del Baccalà è una riflessione ironica, spassosa, a tratti esilarante, sul nostro tempo. È una canzonatura dal tono elegante e mai risentito. Senza cedere al tranello del politicamente corretto, le storie pescate dal Diluvio di Giovanni Ruggiero sono un espediente narrativo, leggero e piacevole, per mettere alla berlina usi e costumi della nostra società. Dalla politica al calcio, passando per la culinaria e le mode tecnologiche, nulla sfugge allo sguardo divertito dell’autore. Un esercizio utile a esorcizzare i tic, i pregiudizi, le scempiaggini, le paranoie di cui siamo vittime e responsabili allo stesso tempo. Per riconoscerci e biasimarci, tra un sorriso e l'altro. Parafrasando Beaumarchais, col Melodramma del Baccalà Giovanni Ruggiero si affretta a ridere di tutto e di tutti nella paura di esserne costretto a piangere.


clicca qui!

°°°
°°
°

 


«Io assemblo i ricordi.
 Do una forma alle mie emozioni
 e a quello che è stato  perché,
 in questo modo, restino ancora
 a rammentarmi una gioia
o anche un dolore.»
Giovanni Ruggiero




Memento
(Un racconto breve di Uros Gorgone ispirato ai miei lavori)
Quando la morte lo invitò a ballare, Giovanni Ruggiero, come molti, non s’era preparato i passi. La riconobbe perché assomigliava troppo a Bette Davis verso la fine. Secca, secca. Con le calze lente e troppo rossetto sulle labbra.
Quando la Morte ti invita a ballare è inutile rimanere seduti. Fare finta di niente la indispettisce, accelerandone il passo. Giovanni ci mise poco a capirlo. Allora indossò il suo vestito migliore. Scarpe nere lucide. La faccia che aveva per le occasioni importanti e si avvinghiò alla vecchia. Guancia a guancia. Strettissimi. Musica aderente, e loro a scivolarci dentro, come amanti. Odore di cerone e acqua di colonia. Lozione per capelli e borotalco. Odore di vecchio.
Notti lunghe quelle lì. Giorni infiniti quelli a seguire.
Ballare le note lascive delle milonghe sconce distraeva la Morte dai continui furti che Giovanni perpetrava ai suoi stessi ricordi. Quella idea lì di sottrarre alla Morte più ricordi possibili gli era venuta ascoltando una canzone spagnola. C’era una voce senza sesso che inanellava fissa la stessa  cantilena. Il ritmo era quello del flamenco.
“Io sono l’insieme dei miei ricordi”, era il senso delle parole.
Sottrarre i propri ricordi alla Morte doveva essere come morire un po’ meno. Niente di romantico. Solo strategia. Solo la matematica del tempo. E per sottrarre il tempo passato bisognava guadagnarne dell’altro ed è per questo che si abbandonava allo struscio della balera. Per questo la Morte si lasciava trascinare. Vanitosa e bastarda. E in questo tempo sottratto alla vita  e alla morte, nella stessa misura sottratto, Giovanni trasferiva i suoi ricordi all’interno di scatole di legno. Almeno i ricordi che poteva. Quelli che si potevano rappresentare in modi concreti e mondi compiuti. Il glicine di zio Raffaele. Le madonnine di Lourdes. Le mani dei fedeli a San Giovanni Rotondo. Mamma Albania. La vergine con il bambino. E così via. E così a detrarre.
Mentre la vecchia troia non ne voleva sapere di lasciarlo stare. Tango dunque. E dunque tango. Guancia a guancia. Coscia a coscia. Disarmati.
Doveva essere stato sul bandoneòn di Piazzolla. Su un casquet  particolarmente riuscito che Giovanni le sussurrò in un orecchio: “Potresti regalarmi almeno un ricordo in cambio di questo pasque, meraviglia!”
La vecchia lo avvolse sui fianchi a salire: “Potrei. Per un po’ di lingua in bocca, magari.”
L’uomo non pensò che la chemio poi non facesse tanto meno schifo, e scivolò allora d’anguilla tra quelle labbra troppo cariche di rosso!
L’indomani Giovanni si presentò sulla pista che sembrava avere una vita in meno. Sotto il braccio c’aveva una scatola con dentro il ricordo che la vecchia gli aveva regalato. La raggiunse al bancone del bar. Tutto era tirato a lucido quella sera. Legni, ottoni, marmi e respiri. Roba da finale col botto! Giovanni e la Morte si dicono qualcosa troppo sottovoce.  Lui le lascia la scatola e fa due passi ad andar via. Solo due. Lei apre la scatola e pare montargli in faccia un ghigno isterico.
“E che ricordo sarebbe questo?”
L’uomo rimane voltato di spalle a due passi dalla Morte.
“E’ il matrimonio di mio figlio!”
La Morte capisce allora che quel giro l’ha perduto. Il figlio di Giovanni  non era neanche fidanzato e ne sarebbero passati di anni perché quel pensiero diventasse prima vita vissuta e dopo ricordo!
L’uomo accennò un sorriso e si allontanò. Avrebbe comunque continuato a ballare con la solita Vita. Avrebbe continuato a sottrarsi i ricordi e a racchiuderli in scatole di legno. Condividendo.  
  Uros Gorgone

Tutte le opere sono nella pagina
MEMENTO



* * * 
*



Ministria e Turizmit, Kulturës, Rinisë
dhe Sporteve ka kënaqësinë

ekspozitës fotografike

nga
Giovanni Ruggiero

...pas dimrit të gjatë

Tiranë 23 march 2012


Ho inaugurato venerdì a Tirana la mostra "... Dopo un lungo inverno" con fotografie realizzate in Albania in occasione delle prime elezioni democratiche del 22 marzo 1992 che decretarono la vittoria del Partito Democratico di Sali Berisha. Le elezioni chiusero definitivamente il regime dittatoriale di Enver Hoxha, continuato poi da Ramiz Alia.

La mostra è stata organizzata 
dal ministro della Cultura albanese, 
Aldo Bumçi
 e curata dal direttore della Galeria Kombëtare e Arteve
 (Galleria Nazionale d'Arte) di Tirana 
Rubens Shima

Le 26 fotografie della mostra
La folla esulta a Tirana in piazza Scanderbeg 



per notizie sulla mostra
cliccare qui:

e qui:


alcuni momenti dell'inaugurazione



Con me, alla mia sinistra, il Ministro della Cultura della Repubblica d'Albania, Aldo Bumçi, lo scrittore Besnik Mustafaj e il poeta Visar Zhiti


Da sinistra a destra, il Ministro della Cultura Aldo Bumçi, l'Ambasciatore italiano in Albania Massimo Gaini e il poeta Visar Zhiti


 *







Nessun commento:

Posta un commento